Animali selvatici : diminuiti del 73% in 50 anni

Per il WWF siamo al punto di non ritorno

Oggi inizia la Cop16, la conferenza sulla biodiversità delle Nazioni Unite, a Cali, in Colombia. Cogliamo l’occasione per raccontare i risultati contenuti nel Rapporto 2024 del WWF “Living Planet Report”, pubblicato da poco. Il rapporto sottolinea l’importanza delle decisioni che verranno prese nei prossimi cinque anni per affrontare sia la crisi della natura che quella climatica, poiché il degrado degli ecosistemi in tutto il mondo pone una grave minaccia all’umanità tutta

Ogni due anni il report “Living Planet Report” curato dal WWF riporta dati e trend aggiornati sullo stato di conservazione della biodiversità e degli ecosistemi, fornendo una panoramica scientifica chiara sullo stato di salute del pianeta, e delle relative problematiche e soluzioni. Il Report include il Living Planet Index (LPI), gestito dalla Società zoologica di Londra (in inglese: Zoological Society of London – ZSL) in collaborazione con il WWF.

In questa edizione, resa pubblica pochi giorni fa, la parola “catastrofico” regna sovrana: in 50 anni la dimensione media delle popolazioni globali di animali selvatici è calata del 73%. Ma cosa vogliono dire questi numeri e come vengono calcolati?

I ricercatori raccolgono ogni anno dati sulla variazione del numero di animali selvatici riguardanti decine di migliaia di popolazioni. Nonostante i dati siano misurati rispetto all’anno 1970, le popolazioni i cui dati risalgono a più di cinquant’anni fa sono pochissime, e per questo molti dati sono stati raccolti in tempi più recenti. Per ogni popolazione viene calcolata la variazione numerica nel tempo – indipendentemente dalle dimensioni delle popolazioni – la quale fornisce il tasso di cambiamento che può essere positivo, negativo o zero. Per ottenere il numero Lpi finale, i ricercatori prendono la media geometrica del tasso di cambiamento in tutte queste popolazioni permettendo di tracciare i cambiamenti nell’abbondanza delle popolazioni di fauna selvatica.

Il Living Planet Index è stato calcolato sulla base dei trend demografici di quasi 35.000 popolazioni e di 5.495 specie di uccelli, mammiferi, rettili, anfibi e pesci. I risultati del 2024 mostrano che tra il 1970 e il 2020 vi è stata una diminuzione del 73% (intervallo 67% – 78%), che corrisponde a un calo del 2.6% all’anno. Tutto ciò significa che negli ultimi cinquant’anni la dimensione delle popolazioni di animali selvatici monitorate si è ridotta in media di quasi tre quarti.

Seguendo la divisione per regioni Ipbies, sono stati poi calcolati i Living Planet Index per ogni regione per mostrare le diverse tendenze dello stato di conservazione della natura. Le regioni con il tasso di cambiamento più negativo sono America Latina e Caraibi (95%), seguita da Africa (76%), Asia e Pacifico (60%), Nord America (39%) ed Europa e Asia Centrale (35%). Tutta via è necessario e doveroso ricordare che lo sfruttamento e deterioramento degli ecosistemi in alcune regioni è determinato dallo sfruttamento delle stesse da parte di altre regioni. La regione Ipbes Europa e Asia centrale risulta essere quella con la più alta impronta ecologica di consumo tra tutte le regioni, e non essendo più in grado di sostenersi attraverso le proprie risorse è diventata dipendente dalle risorse naturali delle altre regioni.

Le tendenze del Living Planet Index variano da una regione all’altra come anche le minacce e le pressioni esercitate dalle attività umane, che sono principalmente sei:

  • Perdita e/o degrado ambientale, causata da attività umane quali deforestazione, agricoltura intensiva, trasporti, attività minerarie e sviluppo commerciale o residenziale
  • Sovrasfruttamento, come bracconaggio e prelievo non sostenibile della fauna selvatica per fini commerciali, oppure catture accidentali di specie non target come accade nella pesca attraverso il bycatch.
  • Cambiamento climatico, i cui effetti stanno già alternando gli ecosistemi e il loro funzionamento, alterando i segnali ambientali che innescano eventi stagionali quali la riproduzione e la migrazione.
  • Inquinamento, si può presentare in diverse forme, dai disastri ambientali dovuti a sversamenti di petrolio ad altre fonti quali inquinamento luminoso e acustico.
  • Specie invasive, possono competere direttamente con le specie autoctone per le risorse alimentari o habitat, oppure diventarne i predatori.
  • Patologie, a causa della diminuzione dell’habitat e l’aumento della presenza umana e di animali domestici in zone una volta remote e isolate gli animali selvatici possono venire in contato con patogeni che non erano precedentemente presenti nell’ambiente.

Il Living Planet Index è un indicatore di valore inestimabile, utilizzato da chi si occupa della conservazione della fauna selvatica e chi la natura la tutela attraverso le policy, per comprendere lo stato di salute e conservazione del nostro pianeta al fine di guidare le azioni di tutela. La perdita e il degrado di habitat e biodiversità possono, superata una certa soglia, incidere sulla funzionalità degli ecosistemi, determinando un cambiamento di equilibri potenzialmente irreversibile. Questo effetto è stato tradotto con “punto critico di non ritorno” dall’inglese tipping point. Il punto critico di non ritorno avviene a più scale, ovvero locale, regionale e infine globale. Alcuni esempi li abbiamo letti sui giornali, come gli incendi incontrollati della costa europea del Mediterraneo, lo sbiancamento della Barriera Corallina e le invasioni dei parassiti a seguito di eventi climatici estremi come la tempesta Vaia. Questi non sono più soltanto campanelli d’allarme, ma segnali chiari ed evidenti di come non possiamo più permetterci di gestire le nostre attività umane come abbiamo fatto fino ad oggi.

Il crollo della biodiversità e del funzionamento degli ecosistemi riguarda tutte le persone, nessuna esclusa. Il quarto capitolo del report illustra una serie di soluzioni sostenibili che mettono la natura al centro, descrivendo dettagliatamente le Nature Based Solution (Soluzioni Basate sulla Natura), strumento necessario e fondamentale per affrontare la crisi climatica, la riduzione del rischio di catastrofi dovute ad eventi climatici estremi, questioni sociali e per ultimo, ma non meno importante, la salute umana che passa dalla sicurezza idrica e alimentare.

A breve si terrà a Cali, in Colombia, la Cop16 sulla biodiversità (che inizia oggi e termina il 1 novembre), seguita dalla Cop29 sul clima a Baku in Azerbaigian (11-22 novembre), due momenti in cui persone e politici da tutto il mondo dialogheranno su questi due temi che non dovrebbero più essere gestiti separatamente. La crisi climatica e la perdita di biodiversità hanno due destini intrecciati, e l’aumento di uno influirà sempre sull’altro, portando noi esseri umani a fare i conti con il degrado degli ecosistemi e la diminuzione di tutti quei servizi che la natura ci provvede gratuitamente che sono fondamentali per la nostra sopravvivenza. Per questo motivo, le decisioni che verranno prese nei prossimi cinque anni per affrontare la perdita di biodiversità e la crisi climatica segneranno il punto di non ritorno dell’umanità.

Fonte