Animali selvatici : diminuiti del 73% in 50 anni

Per il WWF siamo al punto di non ritorno

Oggi inizia la Cop16, la conferenza sulla biodiversità delle Nazioni Unite, a Cali, in Colombia. Cogliamo l’occasione per raccontare i risultati contenuti nel Rapporto 2024 del WWF “Living Planet Report”, pubblicato da poco. Il rapporto sottolinea l’importanza delle decisioni che verranno prese nei prossimi cinque anni per affrontare sia la crisi della natura che quella climatica, poiché il degrado degli ecosistemi in tutto il mondo pone una grave minaccia all’umanità tutta

Ogni due anni il report “Living Planet Report” curato dal WWF riporta dati e trend aggiornati sullo stato di conservazione della biodiversità e degli ecosistemi, fornendo una panoramica scientifica chiara sullo stato di salute del pianeta, e delle relative problematiche e soluzioni. Il Report include il Living Planet Index (LPI), gestito dalla Società zoologica di Londra (in inglese: Zoological Society of London – ZSL) in collaborazione con il WWF.

In questa edizione, resa pubblica pochi giorni fa, la parola “catastrofico” regna sovrana: in 50 anni la dimensione media delle popolazioni globali di animali selvatici è calata del 73%. Ma cosa vogliono dire questi numeri e come vengono calcolati?

I ricercatori raccolgono ogni anno dati sulla variazione del numero di animali selvatici riguardanti decine di migliaia di popolazioni. Nonostante i dati siano misurati rispetto all’anno 1970, le popolazioni i cui dati risalgono a più di cinquant’anni fa sono pochissime, e per questo molti dati sono stati raccolti in tempi più recenti. Per ogni popolazione viene calcolata la variazione numerica nel tempo – indipendentemente dalle dimensioni delle popolazioni – la quale fornisce il tasso di cambiamento che può essere positivo, negativo o zero. Per ottenere il numero Lpi finale, i ricercatori prendono la media geometrica del tasso di cambiamento in tutte queste popolazioni permettendo di tracciare i cambiamenti nell’abbondanza delle popolazioni di fauna selvatica.

Il Living Planet Index è stato calcolato sulla base dei trend demografici di quasi 35.000 popolazioni e di 5.495 specie di uccelli, mammiferi, rettili, anfibi e pesci. I risultati del 2024 mostrano che tra il 1970 e il 2020 vi è stata una diminuzione del 73% (intervallo 67% – 78%), che corrisponde a un calo del 2.6% all’anno. Tutto ciò significa che negli ultimi cinquant’anni la dimensione delle popolazioni di animali selvatici monitorate si è ridotta in media di quasi tre quarti.

Seguendo la divisione per regioni Ipbies, sono stati poi calcolati i Living Planet Index per ogni regione per mostrare le diverse tendenze dello stato di conservazione della natura. Le regioni con il tasso di cambiamento più negativo sono America Latina e Caraibi (95%), seguita da Africa (76%), Asia e Pacifico (60%), Nord America (39%) ed Europa e Asia Centrale (35%). Tutta via è necessario e doveroso ricordare che lo sfruttamento e deterioramento degli ecosistemi in alcune regioni è determinato dallo sfruttamento delle stesse da parte di altre regioni. La regione Ipbes Europa e Asia centrale risulta essere quella con la più alta impronta ecologica di consumo tra tutte le regioni, e non essendo più in grado di sostenersi attraverso le proprie risorse è diventata dipendente dalle risorse naturali delle altre regioni.

Le tendenze del Living Planet Index variano da una regione all’altra come anche le minacce e le pressioni esercitate dalle attività umane, che sono principalmente sei:

  • Perdita e/o degrado ambientale, causata da attività umane quali deforestazione, agricoltura intensiva, trasporti, attività minerarie e sviluppo commerciale o residenziale
  • Sovrasfruttamento, come bracconaggio e prelievo non sostenibile della fauna selvatica per fini commerciali, oppure catture accidentali di specie non target come accade nella pesca attraverso il bycatch.
  • Cambiamento climatico, i cui effetti stanno già alternando gli ecosistemi e il loro funzionamento, alterando i segnali ambientali che innescano eventi stagionali quali la riproduzione e la migrazione.
  • Inquinamento, si può presentare in diverse forme, dai disastri ambientali dovuti a sversamenti di petrolio ad altre fonti quali inquinamento luminoso e acustico.
  • Specie invasive, possono competere direttamente con le specie autoctone per le risorse alimentari o habitat, oppure diventarne i predatori.
  • Patologie, a causa della diminuzione dell’habitat e l’aumento della presenza umana e di animali domestici in zone una volta remote e isolate gli animali selvatici possono venire in contato con patogeni che non erano precedentemente presenti nell’ambiente.

Il Living Planet Index è un indicatore di valore inestimabile, utilizzato da chi si occupa della conservazione della fauna selvatica e chi la natura la tutela attraverso le policy, per comprendere lo stato di salute e conservazione del nostro pianeta al fine di guidare le azioni di tutela. La perdita e il degrado di habitat e biodiversità possono, superata una certa soglia, incidere sulla funzionalità degli ecosistemi, determinando un cambiamento di equilibri potenzialmente irreversibile. Questo effetto è stato tradotto con “punto critico di non ritorno” dall’inglese tipping point. Il punto critico di non ritorno avviene a più scale, ovvero locale, regionale e infine globale. Alcuni esempi li abbiamo letti sui giornali, come gli incendi incontrollati della costa europea del Mediterraneo, lo sbiancamento della Barriera Corallina e le invasioni dei parassiti a seguito di eventi climatici estremi come la tempesta Vaia. Questi non sono più soltanto campanelli d’allarme, ma segnali chiari ed evidenti di come non possiamo più permetterci di gestire le nostre attività umane come abbiamo fatto fino ad oggi.

Il crollo della biodiversità e del funzionamento degli ecosistemi riguarda tutte le persone, nessuna esclusa. Il quarto capitolo del report illustra una serie di soluzioni sostenibili che mettono la natura al centro, descrivendo dettagliatamente le Nature Based Solution (Soluzioni Basate sulla Natura), strumento necessario e fondamentale per affrontare la crisi climatica, la riduzione del rischio di catastrofi dovute ad eventi climatici estremi, questioni sociali e per ultimo, ma non meno importante, la salute umana che passa dalla sicurezza idrica e alimentare.

A breve si terrà a Cali, in Colombia, la Cop16 sulla biodiversità (che inizia oggi e termina il 1 novembre), seguita dalla Cop29 sul clima a Baku in Azerbaigian (11-22 novembre), due momenti in cui persone e politici da tutto il mondo dialogheranno su questi due temi che non dovrebbero più essere gestiti separatamente. La crisi climatica e la perdita di biodiversità hanno due destini intrecciati, e l’aumento di uno influirà sempre sull’altro, portando noi esseri umani a fare i conti con il degrado degli ecosistemi e la diminuzione di tutti quei servizi che la natura ci provvede gratuitamente che sono fondamentali per la nostra sopravvivenza. Per questo motivo, le decisioni che verranno prese nei prossimi cinque anni per affrontare la perdita di biodiversità e la crisi climatica segneranno il punto di non ritorno dell’umanità.

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L’uomo e altri animali bugiardi

diFederica Sgorbissa

«L’intelligenza sembra andare a braccetto con la capacità di raccontare e di mentire. E questo braccetto è la socialità. Significa che non c’è nulla di così diverso o speciale in noi esseri umani? Forse no. La ricerca scientifica sulla cognizione animale negli ultimi decenni ha abbattuto un bel po’ di pregiudizi, mostrando come la nostra intelligenza sia diversa da quella di altri animali quantitativamente più che qualitativamente. Abbiamo trovato esempi di animali che più o meno fanno quasi tutte le cose che facciamo noi, almeno in maniera rudimentale. Perfino mentire»

Da bambina ero in fissa con Pippi Calzelunghe. La adoravo ma mi irritava perché non riuscivo a decidere se la mia eroina fosse una geniale inventrice di storie o una bugiarda patologica. Oggi, quel dubbio mi sembra un po’ ingenuo. Non sono né la prima né la più titolata fra coloro che credono che bugia e narrazione siano due facce della stessa medaglia, se non addirittura la stessa cosa. Si tratta in effetti di un tema piuttosto esplorato in ambito letterario, prima e dopo il bambino che gridava «al lupo al lupo» di Nabokov. Se ne ragionava qualche mese fa nella puntata di Globoin cui Eugenio Cau intervistava lo scrittore spagnolo Javier Cercas.

Non è solo il mondo della letteratura, però, a interessarsi alle bugie. Anche le neuroscienze e la psicologia cognitiva le studiano per capirne le basi cognitive e cerebrali, e spesso sembrano suggerire che mentire, attività socialmente biasimata, richieda in realtà processi molto sofisticati che potrebbero addirittura aver contribuito all’evoluzione della nostra intelligenza.

Bisogna però prima intenderci su cosa sia una bugia. Se mentire è semplicemente dire qualcosa di falso, la distinzione tra bugia e storytelling diventa molto sfumata, perché le storie sono quasi sempre inventate, in un certo senso anche quando raccontano qualcosa di vero. Mi spiega Marco La Rosa, autore del libro Neuroscienze della narrazione: «I narratologi sostengono che le narrazioni siano intrinsecamente false, cioè la narrazione è sempre falsa. Se andiamo a vedere bene, non esiste differenza tra narrazione vera e narrazione falsa. Ogni volta che raccontiamo qualcosa dobbiamo necessariamente fare un’operazione di riduzionismo selezionando alcuni elementi e raccontando quello che vogliamo».

A distinguere fra bugia e narrazione non può neppure essere l’intenzione di ingannare perché anche chi racconta storie è consapevole di inventare, anzi, chiede a chi lo ascolta di “sospendere l’incredulità” – almeno temporaneamente – e di accondiscendere all’inganno facendo “come se” il racconto fosse vero. Qualcuno sostiene che l’unico tratto genuinamente di pertinenza della bugia sia l’inganno, il fatto di mentire per un proprio tornaconto, spesso a danno dell’altro, ma è vero che anche chi racconta lo fa spesso per avere un vantaggio, benché raramente per danneggiare qualcuno. È possibile quindi che più che di una dicotomia netta si tratti di un continuum, di un percorso graduale dove ognuno di noi può decidere il punto in cui mettere l’asticella che separa il racconto dalla menzogna. Ovvio che per farlo occorre credere che una distinzione ci sia.

«Una delle cose che servono per mentire», mi dice Vittorio Gallese, professore di psicobiologia all’Università di Parma, «è possedere il concetto di vero o falso». Nella sua carriera di scienziato, Gallese ha letteralmente scritto un pezzetto di storia delle neuroscienze, avendo contribuito all’osservazione dei neuroni specchio insieme a Giacomo Rizzolatti. È, fra le altre cose, esperto di studi sull’empatia, la capacità di mettersi nei panni e nella testa degli altri.

Per Gallese non può esistere bugia senza negazione, senza una coscienza di ciò che “non è”, che è anche la premessa per “fare finta di”. «Questa è una delle basi delle attività di gioco, negli esseri umani ma anche negli altri animali. Anche i gattini, quando giocano facendo la lotta, fingono». Ed è buffo perché mentre mi parla in videochiamata, vedo sbucare nell’inquadratura le zampe del suo gatto che cercano di acchiappare le sue mani mentre gesticola.

Anche i cuccioli umani, specialmente fra i due e i sette anni, si impegnano spontaneamente in quello che gli psicologi chiamano pretend play, una versione “baby” dei giochi di ruolo: travestirsi, fare finta di essere qualcun altro, inventare storie fantastiche vivendole “come se” fossero vere. Il famoso «facciamo che io ero». È anche abbastanza frequente che in quella stessa età i bambini inventino frottole fantasiose. La letteratura scientifica ha collegato queste attività in età precoce allo sviluppo di importanti capacità cognitive e sociali, come il pensiero simbolico, la teoria della mente (cioè la capacità di attribuire agli altri stati mentali come intenzioni e desideri), e il ragionamento controfattuale («cosa succederebbe se…?»).

LLa mente umana si sviluppa in un contesto sociale: per questo il gioco in cui si inventano diverse possibilità e modi di essere mentre si sta in un gruppo rappresenta un momento cruciale dello sviluppo. «Si parte dal noi per arrivare all’io e al tu, non viceversa», dice Gallese. «L’essere umano più di altri è un animale neotenico: il nostro cervello alla nascita ha meno di un terzo del volume che acquisterà da adulto, questo vuol dire che la gran parte della crescita intellettiva avviene in un contesto sociale. I cognitivisti parlano espressamente di lettura o teoria della mente».

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Forse questi animali si parlano, e lo abbiamo appena scoperto

Una recente ricerca ha scoperto che gli elefanti potrebbero condividere una sfumatura del linguaggio umano, ovvero quella dei nomi individuali. Noi siamo abituati a gestire centinaia di nomi, compresi quelli di persone con cui non interagiamo da decenni e lo facciamo parallelamente ai nomi di migliaia di luoghi, prodotti, oggetti e così via.

Da quanto ne sappiamo gli animali non hanno nulla di simile nei loro pur complessi linguaggi. Se dovessimo scegliere una specie a cui potrebbero essere utili dei nomi, gli elefantisarebbero probabilmente in cima alla lista. Loro sono sono longevi, hanno interazioni sociali complesse e sono già noti per comunicare utilizzando bassi rimbombi. Sappiamo che hanno richiami distinti utilizzati in alcuni contesti sociali specifici.

I nomi degli elefanti

Un team di ricercatori della Colorado State University ha collaborato con gruppi in Kenya coinvolti nella conservazione degli elefanti per verificare se potessero riferirsi tra loro tramite qualcosa di simile a un nome.

I rimbombi prodotti dagli elefanti sono armonicamente complessi ed è difficile identificare caratteristiche importanti esaminando cose come i grafici delle frequenze. Quindi, i ricercatori hanno utilizzato due metodi per esaminarli. Uno era un approccio di apprendimento automatico chiamato modello di foresta casuale e l’altro un software di analisi audio per identificare il grado in cui due chiamate qualsiasi condividono caratteristiche comuni. 

Se si riuscissero a dimostrare che gli elefanti utilizzano i nomi, si tratterebbe di una scoperta incredibile. Ci sono circa 100 milioni di anni di evoluzione tra gli esseri umani e gli elefanti, il che significa che abbiamo condiviso un antenato comune per l’ultima volta circa 30 milioni di anni prima che i dinosaurisi estinguessero. E tra noi ci sono molte specie che non si impegnano in una comunicazione sofisticata. Quindi, qualsiasi capacità in questo senso quasi certamente si è evoluta separatamente.

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Il collare che vi farà parlare con il vostro animale domestico

Un nuovo dispositivo intelligente regala ai proprietari di cani e gatti la possibilità di conversare con i propri cuccioli. O meglio, di fingere di farlo

Gli esseri umani hanno cercato di comunicare con gli animali fin da quando hanno compreso come creare le parole. In tempi moderni, ci rivolgiamo alla tecnologia per trovare una soluzione: forniamo ai nostri gatti dei pulsanti che ripetono frasi come “ho fame” e “ho sete”, o cerchiamo di usare l’intelligenza artificiale per comprendere le balene. L’approccio più recente e forse più diretto alla comunicazione tra l’uomo e le altre specie è un collare ad attivazione vocale che dà al vostro animale domestico la capacità di rispondervi. O almeno, questa è l’idea. Il texano di Austin John McHale possiede un’azienda chiamata Personifi Ai. L’obiettivo della startup, come suggerisce il nome, è creare una tecnologia che “personifichi tutto”, come spiega McHale. Il primo obiettivo sono proprio gli animali da compagnia.

Il collare è dotato di un altoparlante: parlando al vostro animale domestico (o meglio, rivolgendovi al collare) attiverete una voce umana pre-registrata che vi risponderà, creando l’illusione che l’amico peloso abbia una personalità simile a quella umana e la capacità di comunicare (in inglese). Il collare è solo per cani e gatti, ma McHale spera di arrivare a produrre dispositivi adatti ad altre specie, inclusi gli esseri umani. L’imprenditore ha avuto l’idea del collare parlante dopo che il suo cane, Roscoe, è stato morso da un serpente a sonagli. All’inizio McHale non si era reso conto di cosa fosse successo, fino a qualche ora dopo, quando l’animale ha iniziato a stare male. Roscoe è sopravvissuto e ora sta bene, ma è stato ricoverato per dieci giorni, un soggiorno che presumibilmente ha fatto lievitare il conto del veterinario. Questo preoccupante incidente è rimasto impresso nella mente di McHale, che si è chiesto come sarebbero potute andare le cose se fosse stato in grado di comunicare verbalmente con Roscoe. Così è nata l’idea di Shazam.

Come funziona il collare

Il dispositivo si chiama Shazam, anche se non ha alcuna relazione né con il cinecomic omonimo né con l’app di ricerca musicale. Il congegno è dotato di un microfono e di un dispositivo vocale che gli consentono di ascoltare le parole dell’utente e di rispondere in modo pertinente. L’idea è quella di trasmettere ai proprietari la sensazione di conversare con i propri animali da compagnia, mentre in realtà stanno parlando con il chatbot del collare. “Partiamo dagli stati d’animo“, spiega McHale, “e li misuriamo in relazione all’uomo, all’animale e a ciò che li circonda. Tutte queste variabili sono essenzialmente continue e mutevoli, sono input, per quella che chiamiamo la corteccia cognitiva, che costruiamo basandoci sull’apprendimento automatico e su grandi serie di dati”.

Questo processo non è a buon mercato. I collari partono da 495 dollari per i gatti (circa 450 euro) e 595 dollari (circa 550 euro) per i cani. Bisogna anche sostenere i dei costi dell’abbonamento: 195 dollari (circa 180 euro) all’anno per i collari felini e “Ultra”, o 295 dollari (circa 270 euro) all’anno per il servizio BrainBoost, che, secondo un rappresentante di Shazam, “apporta qualità tipicamente senzienti come l’empatia, il ragionamento, la consapevolezza sociale e la consapevolezza di sé“. Entrambi i costi di abbonamento sono zero per il primo anno, ma si attivano automaticamente quello dopo. Senza l’abbonamento a BrainBoost, il collare produce solo una voce generica e perde le sue qualità dinamiche, quindi se si vuole ottenere la migliore esperienza, bisogna continuare a pagare la quota annuale di quasi trecento dollari dopo la fine del primo anno gratuito. I collari sono già disponibili per il preordine, ma l’azienda afferma che le spedizioni non inizieranno prima di febbraio 2025.

Oltre a dare apparentemente al vostro cucciolo il potere della parola, Shazam ha anche altri usi più pratici, in particolare una serie di funzioni di sicurezza che ogni padrone sarebbe grato di avere. Il microfono e i sensori del collare sono in grado di individuare i serpenti a sonagli ascoltando i rumori dell’ambiente circostante, o di rilevare l’allontanamento dell’animale. Quando si verifica una di queste condizioni, il proprietario ricevere un avviso. Il collare può anche tenere traccia delle routine degli amici pelosi, ad esempio è in grado di rilevare quando cane o gatto stanno mangiando. Può essere utilizzato, quindi, per capire quando viene saltato un pasto, e attivare il bot vocale per creare un reminder. Naturalmente, va considerato che il vostro animale da compagnia indossa un microfono sempre acceso e le relative preoccupazioni sulla privacy che ne derivano. Tuttavia, la sicurezza e il benessere dei nostri cani e gatti costituiscono una valida giustificazione.

Tuttavia, il punto di forza di Personifi resta il chatbot. Chatbot, forse, non è proprio il termine giusto. Shazam non utilizza una voce sintetizzata creata da un’intelligenza artificiale come quella del servizio Eleven Labs: tutte le sue linee vocali sono, infatti, preregistrate. Ci sono 27 “personaggi” tra cui scegliere, ognuno con una propria personalità e interpretato da un doppiatore umano. Quando si imposta il collare, si sceglie un personaggio per il proprio animale domestico e se si desidera cambiarlo con uno degli altri in un secondo momento, il costo è di 99 dollari (circa 90 euro). Personifi sostiene che ognuno contempla circa 8.000 battute di dialogo, con l’intenzione di aggiungerne altre. Si tratta di un sacco di dialoghi, certo, ma ciò significa che le voci di Shazam funzionano più come quelle di un Npc (un personaggio non giocante) di un videogioco che come quelle di un chatbot dinamico e in evoluzione.

McHale afferma che la sintetizzazione vocale arriverà probabilmente anche su piattaforma, in modo che il collare possa fare cose come commentare il punteggio di una partita di calcio mentre la si guarda in televisione. Le voci sono molto alla Dr. Dolittle, usano frasi spiritose e fanno battute. I personaggi sono sciocchi o carini, fastidiosi o spiazzanti. Stranamente, sono tutti identificati tramite illustrazioni di avatar umani sul sito web. Uno di questi si chiama Bella, e Shazam la raffigura come una bambina che descrive con tag come “coccolona” e “buffa”; un altro si chiama il dott. Gates, uno scienziato sorridente in camice da laboratorio accompagnato dai tag “ama i bambini” e “premio Nobel”. Le classiche personalità da animali domestici…

McHale afferma che i personaggi sono stati creati per offrire varietà, ma anche per allinearsi ai tipi di personalità comuni che le persone tendono ad associare agli animali da compagnia. “Abbiamo fatto un’indagine di mercatoe quasi tutti gli interpellati hanno un’idea abbastanza precisa della personalità del proprio animale. È sorprendente” sostiene McHale. È possibile personalizzare ulteriormente le caratteristiche nell’app. Una serie di impostazioni consente, infatti, di modificare il livello di espansività, rendere la voce più o meno ironica, assegnare la capacità di fare riflessioni profonde. È possibile cambiare i valori dell’animale, come la compassione, la giustizia e il coraggio. Si possono impostare credenze religiose, capacità di perdonare, opinioni su libertà, fato e destino. È possibile assegnare un’opinione sulla politica e su tematiche sociali. La quantità di opzioni per la personalizzazione è davvero vertiginosa, ma non è chiaro quanto queste impostazioni cambieranno ciò che il vostro animale domestico dice quando vi implora di lasciarlo andare fuori a fare i suoi bisogni.

McHale mi ha mostrato una demo del collare Shazam durante una conversazione su Zoom. Il suo labrador Roscoe, il bravo cagnone sopravvissuto al morso di un serpente, indossa il collare mentre si trova in una stanza con McHale e alcuni rappresentanti di Personifi. Uno di loro gli porge dei bocconcini a Roscoe e gli parla, e il collare risponde con la voce del doppiatore Bobby Johnson, alias The RxckStxr.

“Roscoe, come ti senti?“, chiede.

Potrei bere anche 3-4 litri d’acqua“, risponde il collare di Roscoe.

Ecco perché non vuoi andare a caccia di scoiattoli. Non hai bevuto per tutto il giorno. Vergogna. Però ti voglio bene lo stesso, Roscoe” replica l’umano.

Portami a fare una passeggiata e potrai dirmi quanto mi vuoi bene”, conclude la voce assegnata a Roscoe.

È divertente: ciò che Roscoe dice non corrisponde a ciò che sta facendo. A me sembra che non gli importi molto di bere l’acqua. Invece, si è concentrato intensamente sulle prelibatezze presenti nella stanza. Se avesse potuto esprimere i suoi pensieri in quel momento, avrebbe detto qualcosa come: “Vedo che hai un bocconcino. Per favore, dammelo subito!”. Alcuni scenari funzionano meglio di altri. In un altro esempio, un rappresentante gioca al tiro alla fune con Roscoe. I sensori del collare percepiscono che si sta svolgendo un’attività ludica e la “voce” stravagante di Roscoe dice: “Cancella i tuoi programmi, voglio giocare tutto il giorno!” e prosegue con alcuni grugniti e ringhi.

E i gatti?

La libreria di dialoghi del collare può essere in grado di approssimare le personalità semplici e sovradimensionate della maggior parte dei cani. I gatti, l’altro target di riferimento, sono un’altra cosa. Conversare con i mici è più complicato. Daniel “Dq” Quagliozzi è uno specialista dell’addestramento e del comportamento felino che gestisce Go Cat Go, un servizio di consulenza per proprietari di mici a San Francisco. Afferma che spesso le persone fraintendono ciò che i gatti vogliono veramente, e non è detto che un collare parlante possa aiutare a superare la barriera della comunicazione, senza contare che i gatti possono essere restii a indossarlo.

Realisticamente“, sostiene Quagliozzi, “il collare non farebbe altro che ripetere per tutto il tempo ‘toglietemi questo stramaledetto collare’”. È già abbastanza difficile ottenere una risposta diretta dal proprio animale domestico, ma dotarlo di un marchingegno che estrapoli le reazioni dedotte da un collare carico di sensori non sembra il modo più efficiente per riuscirci. Probabilmente avrete visto i post virali su Instagram che mostrano cuccioli mentre premono pulsanti che attivano frasi specifiche. L’idea è che gli animali stiano imparando a comunicare con i loro padroni. In realtà, più che capire il significato di ogni singolo pulsante, gli animali domestici probabilmente stanno solo premendo quelli che producono la reazione maggiore (o la garanzia di un premio) da parte del padrone. Shazam si scontra con un problema simile. Gatti e cani non capiscono granché del linguaggio umano, così come noi non capiamo sempre perché stiano miagolando o abbaiando.

Il vero beneficio del legame è per l’uomo“, afferma McHale, “Si tratta di un’attività che riguarda l’essere umano, il quale si persuade che il suo animale sia più sicuro e meglio compreso”. I migliori chatbot, anche quelli che si avvalgono di esperti in LLM, non capiscono ancora cosa dicono gli umani; sono solo molto bravi a generare risposte che ci fanno credere di essere capiti. Quando si ricorre alla mimica per dare voce a un’altra creatura vivente, nemmeno l’animale domestico capisce cosa significhi: sentirà la stessa voce, ma non la interpreterà come propria, che esprime le proprie intenzioni. La sentirà come un’entità completamente separata, solo più vicina alle sue orecchie del solito.

McHale immagina un mondo in cui i cani che indossano i collari Shazam si incontrano al parco e mentre si annusano e abbaiano, un paio di chatbot con voce umana chiacchierano dai loro collari. Quagliozzi, invece, si preoccupa del lato oscuro del dare voce agli animali domestici. Teme che possa portare a un aumento dei video sui social che le persone ritengono innocui ma che sono potenzialmente dannosi per i loro felini. “È una delle cose contro cui combatto costantemente: le persone che usano i loro felini come oggetti di scena per fare cose divertenti. Così facendo li spaventano o semplicemente creano fiction basate sul modo in cui sanno che un gatto reagirà a qualcosa di traumatico. Dare loro una voce buffa da cartone animato può andare fuori controllo” spiega Quagliozzi.

Le funzioni del collare Shazam che si concentrano sulla sicurezza e sul benessere dell’animale sono lodevoli. Rilevare un serpente a sonagli potrebbe rivelarsi un salvavita. E se è necessario che un cane lanci un impertinente “Ehi amico, è l’ora delle crocchette!” per ricordare al padrone di dargli da mangiare, ben venga. Tuttavia, un chatbot al collo del vostro cane probabilmente non approfondirà il vostro legame. L’esigenza di capire i propri animali domestici è naturale, ma esistono modi migliori per assicurarsi che i loro bisogni siano soddisfatti, che farli parlare la vostra lingua. La migliore conversazione con il vostro animale non è fargli pronunciare battute impertinenti, ma incontrarlo al suo livello“Ci ostiniamo a cercare di alzare sempre il tiro, anche solo di un po’”, osserva Quagliozzi, “Il motivo è lo stesso per cui vogliamo i robot, per cui vogliamo la compagnia dall’intelligenza artificiale. Gli esseri umani si sentono soli, e vogliono qualcuno con cui parlare”.

Questo articolo è apparso originariamente su Wired US.

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Una specie di cincia ha cambiato il canto per distinguersi dalle altre

Per evitare di confondersi con una specie simile, la cincia delle Montagne Rocciose ha modificato il suo canto, creandone uno più lungo e complesso.

La famiglia Paridae comprende tutti quegli uccelli a cui ci riferiamo comunemente come “cince”; in particolare, le specie che vivono in Nord America vengono chiamate “chickadee” in inglese, un termine che non ha un equivalente italiano ma che le distingue dalle cince del resto del mondo.

Si tratta di uccelli simili nell’aspetto, e che in certi luoghi condividono lo stesso areale tra specie diverse: è il caso delle cince delle Montagne Rocciose (Poecile gambeli), che vivono in altura ma il cui habitat si sovrappone in parte a quello delle cince capinere (Poecile atricapillus). Un nuovo studio pubblicato sul Journal of Evolutionary Biology dimostra che, per evitare di fare confusione, le cince delle Montagne Rocciose hanno imparato nuovi canti, che permettono loro di distinguere le conspecifiche dalle cince capinere.

Nei luoghi dove i loro habitat si sovrappongono (per esempio le montagne di Boulder, Colorado, dove è stato condotto lo studio), le cince capinere sono dominanti su quelle delle Montagne Rocciose: le scacciano se si avvicinano troppo ai loro nidi, e arrivano sempre prime sul cibo – le rivali devono aspettare che abbiano finito per nutrirsi.

Questo “arrangiamento” un po’ sbilanciato ha fatto sorgere un dubbio nei ricercatori dell’università di Boulder: è possibile che, come avviene per esempio nei fringuelli delle Galapagos studiati da Darwinle cince abbiano sviluppato caratteri nuovi per distinguersi dagli esemplari della specie rivale?

Il canto come carta d’identità. Un’analisi dei canti delle due specie di cince ha rivelato che la risposta è sì: le cince delle Montagne Rocciose hanno elaborato un canto diverso, più lungo e complesso di quello, per esempio, delle loro conspecifiche che vivono in California, e che sono state usate come confronto.

In questo modo, questi uccelli riescono a distinguersi tra loro, e a identificare  quale specie appartenga l’esemplare che sta cantando: questo permette loro di non sprecare energie con un’altra specie, e di non fare confusione (superficialmente, i due uccelli sono molto simili). La differenza nel canto evita anche l’imbarazzante situazione in cui due cince di specie diverse si accoppiano: possono figliare, ma la loro prole è sterile, e metterla al mondo è quindi una fatica inutile.

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