diFederica Sgorbissa
«L’intelligenza sembra andare a braccetto con la capacità di raccontare e di mentire. E questo braccetto è la socialità. Significa che non c’è nulla di così diverso o speciale in noi esseri umani? Forse no. La ricerca scientifica sulla cognizione animale negli ultimi decenni ha abbattuto un bel po’ di pregiudizi, mostrando come la nostra intelligenza sia diversa da quella di altri animali quantitativamente più che qualitativamente. Abbiamo trovato esempi di animali che più o meno fanno quasi tutte le cose che facciamo noi, almeno in maniera rudimentale. Perfino mentire»
Da bambina ero in fissa con Pippi Calzelunghe. La adoravo ma mi irritava perché non riuscivo a decidere se la mia eroina fosse una geniale inventrice di storie o una bugiarda patologica. Oggi, quel dubbio mi sembra un po’ ingenuo. Non sono né la prima né la più titolata fra coloro che credono che bugia e narrazione siano due facce della stessa medaglia, se non addirittura la stessa cosa. Si tratta in effetti di un tema piuttosto esplorato in ambito letterario, prima e dopo il bambino che gridava «al lupo al lupo» di Nabokov. Se ne ragionava qualche mese fa nella puntata di Globoin cui Eugenio Cau intervistava lo scrittore spagnolo Javier Cercas.
Non è solo il mondo della letteratura, però, a interessarsi alle bugie. Anche le neuroscienze e la psicologia cognitiva le studiano per capirne le basi cognitive e cerebrali, e spesso sembrano suggerire che mentire, attività socialmente biasimata, richieda in realtà processi molto sofisticati che potrebbero addirittura aver contribuito all’evoluzione della nostra intelligenza.
Bisogna però prima intenderci su cosa sia una bugia. Se mentire è semplicemente dire qualcosa di falso, la distinzione tra bugia e storytelling diventa molto sfumata, perché le storie sono quasi sempre inventate, in un certo senso anche quando raccontano qualcosa di vero. Mi spiega Marco La Rosa, autore del libro Neuroscienze della narrazione: «I narratologi sostengono che le narrazioni siano intrinsecamente false, cioè la narrazione è sempre falsa. Se andiamo a vedere bene, non esiste differenza tra narrazione vera e narrazione falsa. Ogni volta che raccontiamo qualcosa dobbiamo necessariamente fare un’operazione di riduzionismo selezionando alcuni elementi e raccontando quello che vogliamo».
A distinguere fra bugia e narrazione non può neppure essere l’intenzione di ingannare perché anche chi racconta storie è consapevole di inventare, anzi, chiede a chi lo ascolta di “sospendere l’incredulità” – almeno temporaneamente – e di accondiscendere all’inganno facendo “come se” il racconto fosse vero. Qualcuno sostiene che l’unico tratto genuinamente di pertinenza della bugia sia l’inganno, il fatto di mentire per un proprio tornaconto, spesso a danno dell’altro, ma è vero che anche chi racconta lo fa spesso per avere un vantaggio, benché raramente per danneggiare qualcuno. È possibile quindi che più che di una dicotomia netta si tratti di un continuum, di un percorso graduale dove ognuno di noi può decidere il punto in cui mettere l’asticella che separa il racconto dalla menzogna. Ovvio che per farlo occorre credere che una distinzione ci sia.
«Una delle cose che servono per mentire», mi dice Vittorio Gallese, professore di psicobiologia all’Università di Parma, «è possedere il concetto di vero o falso». Nella sua carriera di scienziato, Gallese ha letteralmente scritto un pezzetto di storia delle neuroscienze, avendo contribuito all’osservazione dei neuroni specchio insieme a Giacomo Rizzolatti. È, fra le altre cose, esperto di studi sull’empatia, la capacità di mettersi nei panni e nella testa degli altri.
Per Gallese non può esistere bugia senza negazione, senza una coscienza di ciò che “non è”, che è anche la premessa per “fare finta di”. «Questa è una delle basi delle attività di gioco, negli esseri umani ma anche negli altri animali. Anche i gattini, quando giocano facendo la lotta, fingono». Ed è buffo perché mentre mi parla in videochiamata, vedo sbucare nell’inquadratura le zampe del suo gatto che cercano di acchiappare le sue mani mentre gesticola.
Anche i cuccioli umani, specialmente fra i due e i sette anni, si impegnano spontaneamente in quello che gli psicologi chiamano pretend play, una versione “baby” dei giochi di ruolo: travestirsi, fare finta di essere qualcun altro, inventare storie fantastiche vivendole “come se” fossero vere. Il famoso «facciamo che io ero». È anche abbastanza frequente che in quella stessa età i bambini inventino frottole fantasiose. La letteratura scientifica ha collegato queste attività in età precoce allo sviluppo di importanti capacità cognitive e sociali, come il pensiero simbolico, la teoria della mente (cioè la capacità di attribuire agli altri stati mentali come intenzioni e desideri), e il ragionamento controfattuale («cosa succederebbe se…?»).
LLa mente umana si sviluppa in un contesto sociale: per questo il gioco in cui si inventano diverse possibilità e modi di essere mentre si sta in un gruppo rappresenta un momento cruciale dello sviluppo. «Si parte dal noi per arrivare all’io e al tu, non viceversa», dice Gallese. «L’essere umano più di altri è un animale neotenico: il nostro cervello alla nascita ha meno di un terzo del volume che acquisterà da adulto, questo vuol dire che la gran parte della crescita intellettiva avviene in un contesto sociale. I cognitivisti parlano espressamente di lettura o teoria della mente».