I supermercati volendo potrebbero combattere gli allevamenti intensivi di polli (ma non vogliono)

Martina Di IorioEditor di CiboToday

Essere Animali, associazione per la difesa degli animali sfruttati negli allevamenti intensivi, ha pubblicato un report che mette in luce la cattiva comunicazione e trasparenza della grande distribuzione. Nel mirino alcune grandi catene di supermercati: tutte con voti insufficienti

n report che fa riflettere sulle condizioni degli allevamenti intensivi in Italia. Arriva da Essere Animali, associazione per la difesa degli animali sfruttati dall’industria alimentare, che pubblica la relazione “Supermercati italiani: impegni e trasparenza per i polli. Un’analisi condotta a seguito delle relazioni e dei rapporti intrattenuti con i maggiori supermercati italiani a partire dal 2022. Nel mirino di fatto tutto il mercato: LDI, Bennet (Gruppo Végé), CONAD, Coop, Esselunga e Gruppo Selex, che a detta dell’associazione, non sembrano rispettare i criteri previsti dallo European Chicken Commitment (ECC). Con la conseguenza di prodotti scadenti e potenzialmente dannosi per la saluta umana. Ecco i voti che sono stati pubblicati e il report.

Un allevamento intensivo di polli-3
Un allevamento intensivo di polli-3

Essere Animali e l’impegno verso il benessere degli animali

Essere Animali ha come obiettivo quello di porre fine all’allevamento intensivo e promuovere la transizione verso un sistema alimentare più compassionevole. Da sempre punta a lavorare con aziende alimentari e istituzioni di settore perché vengano progressivamente migliorate le condizioni di vita degli animali d’allevamento. Come in questo caso. “Ogni anno nel mondo sono macellati oltre 70 miliardi di polli, più di 500 milioni solo in Italia, quasi tutti cresciuti in allevamenti intensivi” leggiamo nel report. Numeri davvero ingenti.

L’analisi di Essere Animali ha come punto di partenza i contatti intercorsi in questi anni con la GDO italiana, per discutere delle problematiche che vivono i polli negli allevamenti intensivi. Una conversazione che ha preso spunto dai criteri stipulati all’interno dell’ECC: documento sottoscritto da 30 ONG internazionali per migliorare gli standard di allevamento e macellazione nella filiera dei polli da carne a livello commerciale. 

Il report di Essere Animali sulla carne degli allevamenti intensivi-2
Il report di Essere Animali sulla carne degli allevamenti intensivi-2

Il report sui supermercati italiani

Ma perché prendersela proprio coi supermercati e non direttamente gli allevamenti? “supermercati giocano un ruolo fondamentale nella trasformazione dei sistemi produttivi perché, grazie alla loro dimensione e ai volumi di vendita, sono in grado di indirizzare direttamente il miglioramento delle filiere da cui provengono i prodotti venduti a loro marchio” spiegano da Essere Animali. Da qui l’attenzione costante verso questi attori di primaria importanza nella filiera.

criteri su cui si è basato il report sono stati molteplici. Qualità delle conversazioni, quindi quanto i supermercati sono stati disponibili nel risponde e fornire dati. Proattività verso impegni futuri in cui si valuta la propensione a impegnarsi. E infine la presenza di impegni concreti e significativi per i polli, con l’obiettivo di valutare se le comunicazioni contengano anche promesse in tal senso. Il risultato? Per Essere Animali molto deludente.

La trasparenza della GDO sotto accusa-2
La trasparenza della GDO sotto accusa-2

Le pagelle di Essere Animali

Le valutazioni vanno da 1 a 10, ma i voti complessivi raggiunti dai supermercati analizzati dal report non superano il 5. Leggiamo: Coop ed Esselunga, che della comunicazione sulla qualità fanno spesso il loro punto di forza, registrano solo un 4, mentre insegne come Aldi e Gruppo Selex si posizionano più in alto con, rispettivamente, 4,5 e 5”. Più bassa invece la valutazione per Bennet (Gruppo Végé), che registra un 3 complessivo, mentre il principale player italiano, Conad, si piazza all’ultimo posto con un 2 in pagella. Ma non è tutto negativo per Essere Animali: “I supermercati che in Italia si sono invece già impegnati per migliorare le condizioni dei polli nella loro filiera sono Carrefour, Cortilia e Eataly”. Ricordiamo comunque che siamo in presenza di una analisi non sulla qualità specifica del prodotto e neppure sulle effettive modalità di allevamento, bensì sull’approccio delle catene di supermercati su questo tema molto sensibile. Una analisi dunque che aiuta a riflettere sul problema oggettivo rappresentato dagli allevamenti intensivi.

Si tratta di uno dei tantissimi report che invita alla riflessione su questo tema, sottolineando inoltre come non cadere nel tranello delle scuse e degli slogan aziendali. Come il prezzo basso, che sa da un lato fa leva sulle difficoltà economiche di molti, dall’altro contribuisce alla diffusione di abitudini malsane dannose per la salute degli animali ma anche poi di chi li mangia. A volte pagare qualcosa di più, conoscendo dunque provenienza e metodi di allevamento e magari rivolgendosi alle botteghe o ai mercati invece che alla GDO, aiuta salute e ambiente.

fonte

Danni causati da fauna selvatica, è possibile chiedere un indennizzo

Cinghiali, caprioli, cervi, stambecchi, istrici, fagiani, volpi, lepri: la fauna selvatica è una delle ricchezze del nostro Paese, ma sulle strade può rappresentare un rischio per gli automobilisti e i motociclisti che incrociano questi animali sul loro percorso.

Il loro comportamento, infatti, è imprevedibile e l’aumento della popolazione di alcune specie è correlato con un incremento del numero di incidenti. Come nel caso dei cinghiali: il loro numero è cresciuto del 15% durante la pandemia, superando i 2 milioni di esemplari (solo 10 anni fa erano la metà) con un corrispettivo aumento del numero dei sinistri. Secondo l’Osservatorio Asaps, infatti, «il tragico bilancio dell’anno del Covid, è di un incidente ogni 48 ore. Con 16 vittime e 215 feriti, a causa di cinghiali e animali selvatici che attraversano strade e autostrade». Solo nel 2019, oltre 10.000 persone sono rimaste coinvolte in un incidente stradale con un animale selvatico.

Ma chi è responsabile in questi casi? È previsto un risarcimento del danno per un sinistro dovuto alla fauna selvatica? E, soprattutto, come richiederlo? Ecco tutto quello che è importante sapere.

In caso di danno causato da fauna selvatica, il risarcimento va richiesto all’Ente a cui sono stati affidati concretamente i poteri di gestione e di controllo del territorio e quindi degli animali selvatici che si trovano sul territorio.19 dic 2023

Incidente stradale con animali selvatici: chi è responsabile?

La fauna selvatica è considerata patrimonio dello Stato: per questo, la legge ne affida la gestione alle Regioni, che è responsabile dei danni da essa cagionati in base all’articolo 2052 del Codice Civile e la sentenza della III sezione della Corte di Cassazione depositata il 20 aprile 2020 n. 7969. È compito delle amministrazioni regionali, quindi, predisporre le misure adeguate per prevenire gli incidenti stradali dovuti alla presenza di animali e, eventualmente, incaricare enti o società terze della messa in atto di interventi studiati per limitare i sinistri.

Segnaletica, recinzioni nei punti in cui il passaggio è più frequente, catarifrangenti direzionali che spaventando l’animale con una luce forte e improvvisa al passaggio delle auto e ne stimolano l’immobilizzazione per scoraggiare l’attraversamento, sottopassi o cavalcavia – i cosiddetti “ecodotti” – pensati per poter superare le strade senza entrare nella carreggiata: gli interventi che le Regioni o gli enti da essa incaricati possono realizzare per ridurre al minimo il rischio di incidente sono numerosi.

Secondo la sentenza della Corte di Cassazione n.19332 del 07-07-2023,

nell’azione di risarcimento del danno cagionato da animali selvatici a norma dell’art. 2052 c.c. la legittimazione passiva spetta in via esclusiva alla Regione, in quanto titolare della competenza normativa in materia di patrimonio faunistico, nonchè delle funzioni amministrative di programmazione, di coordinamento e di controllo delle attività di tutela e gestione della fauna selvatica, anche se eventualmente svolte -per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari- da altri enti; la Regione può rivalersi (anche mediante chiamata in causa nello stesso giudizio promosso dal danneggiato) nei confronti degli enti ai quali sarebbe in concreto spettata, nell’esercizio delle funzioni proprie o delegate, l’adozione delle misure che avrebbero dovuto impedire il danno.

Il danneggiato, continua la sentenza, ha l’onere di dimostrare il “nesso eziologico”, ovvero il nesso di causalità, tra il comportamento dell’animale e il sinistro, mentre la Regione deve fornire

la prova liberatoria del caso fortuito, dimostrando che la condotta dell’animale si è posta del tutto al di fuori della propria sfera di controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile o, comunque, non evitabile neanche mediante l’adozione delle più adeguate e diligenti misure – concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto e compatibili con la funzione di protezione dell’ambiente e dell’ecosistema- di gestione e controllo del patrimonio faunistico e di cautela per i terzi.

mv

Come si spostano gli animali in Italia a causa del clima

«Le cicale sono soltanto una delle numerose specie di insetti e animali che, come l’uomo, tentano di adattarsi al cambiamento climatico; alcune fuggono dal caldo anomalo, altre lo sfruttano per estendere il proprio habitat, con conseguenze negative sia dal punto di vista ecologico (minor biodiversità) che sanitario (portatori di patogeni). Se in passato gli effetti delle introduzioni di specie aliene in Europa da parte dell’uomo venivano in gran parte limitati dal freddo, oggi questa capacità di contenimento si è notevolmente ridotta. Per tanti tipi di piante e animali invasivi che sfruttano il caldo a loro vantaggio, ci sono altrettante specie autoctone che vedono il loro habitat ridursi, al punto da essere costrette a spostarsi verso regioni più fredde. Succede anche a noi»

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Ermellino bianco su prato verde senza neve (Epa/Karl-Josef Hildebrand/ansa)
Ermellino bianco su prato verde senza neve (Epa/Karl-Josef Hildebrand/ansa)

Agosto 2017, fa un gran caldo in tutta Italia e molte zone registrano una preoccupante carenza d’acqua. Spossato dalla calura e intristito dagli alberi precocemente ingialliti dalla siccità, decido di cercare frescura in montagna. Con un amico optiamo per il monte Falterona, sull’Appennino tosco-romagnolo, zona nota per la ricchezza delle sue foreste, per la bellezza dei suoi paesaggi e per il clima gradevole anche in piena estate. Salendo di quota il caldo si attenua, ma la sensazione è quella che sia davvero eccessivo anche per quelle altitudini. Arrivati a circa 1.550 metri il silenzio dei faggi e degli abeti viene spezzato dal frinìo di una cicala; quel canto, così anomalo per quell’ambiente, ci lascia talmente increduli che decidiamo di registrarlo.

Anche l’insetto più rappresentativo delle estati mediterranee ha deciso di puntare in alto, ma non per sfuggire al caldo, bensì per seguirlo ben oltre i limiti entro i quali la natura lo aveva confinato. Le cicale, infatti, come molti altri insetti, sono creature termosensibili e ampliano o riducono il loro areale, la superficie abitata da una specie, anche in base alle condizioni climatiche. Quella dell’estate 2017 è stata la mia prima, personale, testimonianza della presenza di cicale in montagna; un fatto che ormai si ripete ogni estate diventando una consuetudine a cui non facciamo quasi più caso. Nell’estate del 2023 l’inconfondibile “canto” della cicala è stato documentato anche sul monte Baldo, tra Trentino e Veneto, a 1.700 metri di quota, mentre nell’agosto 2024 ha riecheggiato sui crinali più elevati dell’Appennino pistoiese.

Le cicale sono soltanto una delle numerose specie di insetti e animali che, come l’uomo, tentano di adattarsi al cambiamento climatico; alcune fuggono dal caldo anomalo, altre lo sfruttano per estendere il proprio habitat, con conseguenze negative sia dal punto di vista ecologico (minor biodiversità) che sanitario (portatori di patogeni). A causa del cambiamento climatico alcuni tipi di zecche, note per essere vettori di malattie anche gravi,  stanno espandendo sia il loro areale, sia la stagione in cui riescono a parassitare gli ospiti. Dato che non tutti gli animali che colonizzano gli spazi resi disponibili da questo innaturale innalzamento delle temperature sono “buoni”, molti possono risultare estremamente competitivi e soprattutto molto dannosi per l’ecosistema. Non è certo il caso del geco, un “invasore” simpatico e innocuo, anch’esso diventato presenza costante in zone d’Italia dove fino a 20 anni fa non esisteva, come per esempio la Val Padana, le montagne del Carso, o le zone collinari interne dell’Italia centrale.

Decisamente pericolose per gli equilibri ecosistemici, invece, sono le specie marine che dal mar Rosso si spingono nel Mediterraneo, trovando, contrariamente a quanto succedeva in passato, un ambiente favorevole per la loro diffusione.

Giulio Betti

FONTE

Laika: sacrificata in nome del progresso, non ne avevamo il diritto!

Laika

Laika, “Piccola Abbaiona”, ma il suo vero nome era Kudrjavka, che in russo significa “ricciolina”. Fu catturata per strada, a Mosca. Metà Husky e metà Terrier, aveva circa 3 anni all’epoca.

Fu scelta perché era calma, docile e perfettamente adattabile alla capsula dello Sputnik 2. Equipaggiata per il supporto vitale (cibo e acqua), la missione non prevedeva il ritorno. Per Laika fu una condanna a morte.

L’interno del satellite era rivestito e lo spazio interno era abbastanza ampio da permettere a Laika di sdraiarsi o stare in piedi. La temperatura interna era impostata a 15 gradi e un sistema di refrigerazione doveva proteggere l’animale da eccessivi sbalzi termici. Il 3 novembre, alle 2 del mattino, lo Sputnik 2 fu lanciato nello spazio.

Laika probabilmente sopravvisse per sette ore. Ma alcune fonti affermano che l’agonia durò molto più a lungo: quattro giorni.

Sola, nello spazio. Il satellite tornò nell’atmosfera 5 mesi dopo, il 14 aprile 1958, dopo aver compiuto 2.570 giri intorno alla Terra.

Si disintegrò al rientro nell’atmosfera. Ogni anno, prima dell’autunno, mi sento obbligato a raccontare questa storia e possibilmente farlo con parole nuove. C’è un profondo senso di colpa che tutti noi dovremmo provare leggendo ciò che abbiamo fatto a Laika.

Il progresso umano è stato spesso ottenuto a spese di animali che non avevano nulla a che fare con il nostro desiderio di supremazia.

Molte persone credono che questo fosse un prezzo accettabile per le nostre conquiste, ma sembra ovvio, anche leggendo questa storia, che fosse semplicemente una forma banale di prevaricazione. Avevamo il dovere di scegliere un altro percorso.
Abbiamo ancora quel dovere oggi.

Laika 💔
Mondo Animali

Perché il Mio Cane Puzza?

La percezione degli odori è senz’altro soggettiva: ciò che per qualcuno ha un cattivo odore, per un altro non lo è.

Per esempio, l’odore del cane sano può essere percepito in modo gradevole oppure essere considerato anche insopportabile; in ogni caso gli odori naturali dei cani hanno la funzione di riconoscimento degli individui e di marcatura del territorio.

Va sottolineato che un odore intenso può spesso essere dovuto anche a una cattiva toelettatura negli esemplari a pelo lungo, folto o cordato, che può causare la formazione di odori sgradevoli nel mantello.

Inoltre se il pelo non è mantenuto pulito e curato può intrappolare sporcizia e altre sostanze dall’odore sgradevole.

Le cose cambiano se l’odore del cane è causato da condizioni patologiche, che in alcuni casi conferiscono al cane un odore sgradevole, e possiamo oggettivamente parlare di puzza del cane1.

Se ti stai chiedendo “Perché il mio cane puzza così tanto?”, i motivi possono quindi essere diversi.

Motivi della puzza del cane legati a condizioni patologiche

Alcune malattie della pelle possono causare un maggiore o anomalo odore del cane. L’allergia può causare un aumento della produzione di sudore apocrino2, che conferisce un odore di muffa.

Questa condizione, definita iperidrosi, può favorire un’infezione cutanea da lieviti o batteri e anche questi microrganismi producono odori.

I cani con seborrea o difetto di cheratinizzazione e quelli con pieghe cutanee profonde (come il muso di un bulldog) sono molto inclini alla proliferazione secondaria di batteri o lieviti sulla superficie cutanea, che possono causare la puzza del cane.

Le malattie dell’orecchio (otiti) possono essere all’origine di odori che variano da quelli di lievito a quelli di liquami, poiché il cerume o il pus si accumulano nel condotto uditivo malato.

I cani, come tutti i carnivori, possiedono anche due sacche anali, o ghiandole odorose. Questi sacchi comunicano con la superficie della pelle tramite condotti che si aprono su entrambi i lati dell’ano. Le sacche sono rivestite da ghiandole apocrine e sebacee.

Esse producono una secrezione naturale che varia da sottile e giallastra a pastosa e grigiastra; la secrezione ha un odore muschiato molto forte.

Le malattie del sacco anale o l’eccessiva produzione di secrezioni possono causare un odore pungente e di muffa. I sacchi anali possono diventare ascessi e i microrganismi infettivi producono l’odore.

La puzza del cane può anche essere causata da alito cattivo. Le cause più comuni di alitosi3 nei cani sono le seguenti:

  • Problemi paradontali

Un cane con alito che puzza può soffrire di disturbi del cavo orale, come carie, gengivite e infezioni batteriche. Queste condizioni possono causare alito cattivo a causa dell’accumulo di placca batterica, della carie o dell’infiammazione delle gengive;

Leggi anche: In Che Modo una Cattiva Salute Orale, Può Abbreviare la Vita del Tuo Animale Domestico

  • Infezioni virali o batteriche

La tonsillite o la faringite, ad esempio, possono generare alitosi perché provocano l’infiammazione della gola e della bocca, contribuendo al cattivo odore dell’alito

  • Malattie gravi

Le malattie gravi, come i tumori o il diabete, causano effetti sistemici che possono provocare l’alito che puzza soprattutto nel cane anziano.

  • Disturbi gastrointestinali e problemi digestivi

L’apparato digerente può avere un impatto sull’alito del cane. Disturbi gastrointestinali, cattiva digestione o problemi alimentari possono causare alito del cane che puzza.

  • Coprofagia

I cani possono anche acquisire un alito maleodorante come risultato della coprofagia, la pratica di mangiare le proprie feci o quelle di altri animali. Per cercare di ovviare a questo problema, è possibile acquistare additivi alimentari preparati in commercio che, aggiunti al cibo del cane, conferiscono un sapore amaro alle sue feci, riducendo così la tendenza a consumare le proprie feci.

  • Antibiotici

Gli antibiotici possono produrre causare la puzza del cane odori che i proprietari possono trovare sgradevoli.

  • Ingredienti alimentari

Alcuni ingredienti del cibo per cani, in particolare la farina di pesce o l’olio di pesce, possono produrre nel cane alito che puzza e odori cutanei.

La puzza del cane può essere anche dovuta a flatulenza4, legata alla dieta o a una malattia gastrointestinale., che causano emissioni di gas dall’odore sgradevole.

Conclusioni

Se il tuo cane puzza, è meglio evitare di coprire l’odore con disinfettanti o deodoranti che possono solo far male alla tua bestiola.

Poiché le cause della puzza del cane possono essere diverse, occorre rivolgersi al veterinario, che dopo un’approfondita visita deciderà il trattamento opportuno per ristabilire la salute del tuo amico a quattro zampe.

FONTE

Riferimenti:

  1. https://www.veterinariapiazzabologna.it/2021/05/31/cattivo-odore-del-cane-perche/
  2. https://www.difossombrone.it/dermatologia/main17odoredeicani.htm
  3. https://www.efarma.com/consigli/alitosi-del-cane-cosa-dargli/
  4. https://avanzimorivet.it/index.php/home/cane/flatulenza-nel-cane/