Germana Carillo – FONTE
Di fronte alle acque blu del Pacifico colombiano, gli imprenditori sognavano un porto gigantesco, ma si sono scontrati con gli afrodiscendenti e gli indigeni della regione del Chocó che sono riusciti a fermare i lavori e a preservare quell’angolo di paradiso. Qui non ci sono né strade né acquedotti, vero, ma i 18mila abitanti di questo posto incontaminato vogliono un altro tipo di sviluppo, più equo e sostenibile
Stivali di gomma e guanti, si addentra tra i rami delle mangrovie alla ricerca del pianguas, un mollusco considerato una prelibatezza in Ecuador e in Messico, dove è conosciuto anche come concha negra e pata de mule.
Lei è Marcelina Moreno, una donna afro di 51 anni che insieme alla sua comunità è decisa fino al midollo: “Non permetteremo a nessuno di distruggerlo perché è un patrimonio naturale”, dice. Parla del Golfo di Tribugá, in groviglio di circa 600 ettari di spiagge, di foreste vergini e mangrovie, sul quale squali imprenditori dal 2006 ci hanno puntato gli occhi.
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Prima che l’UNESCO lo dichiarasse riserva della biosfera a giugno scorso, infatti, questo posto incantevole – dove vivono anche 1.500 piante endemiche ospita e le megattere vi partoriscono tra giugno e novembre – è stato il teatro di un’acerrima battaglia tra afrodiscendenti e indigeni e gli autori del progetto di un mega porto.
Il progetto
Secondo gli ideatori, il porto avrebbe dovuto collegare il Pacifico con le regioni industriali della Colombia centro-occidentale. Risale almeno al 2006, quando una trentina di amministrazioni locali e imprenditori si unirono per progettare l’opera.
I piani, che prevedevano la costruzione di circa 80 km di autostrada attraverso la giungla per collegare la città costiera di Nuquí con il resto del paese, procedettero a passo di lumaca finché nel 2018 l’allora candidato alla presidenza Ivan Duque dichiarò che il progetto sarebbe stato una priorità. Dopo aver vinto le elezioni quell’anno, il conservatore Duque inserì il lavoro nel suo piano di governo e ribadì la sua promessa.
Ma gli abitanti dei comuni di Nuquí, Tribugá e Bahía Solano, per lo più afro, con una minoranza di indigeni Embera, ovviamente non sono mai scesi a compromessi, anche se – sulla carta – il piano offriva alle comunità una “percentuale minima di profitti”.
In una regione dove la disoccupazione è intorno al 30% e la povertà colpisce il 63% degli abitanti, il porto, infatti, prometteva di portare “molto lavoro”, ricorda Moreno. Ma d’altra parte, avrebbe portato distruzione alle mangrovie, alla terra, a tutto. Quindi (abbiamo detto) no al porto, conclude.
A circa 200 chilometri a sud è attivo da decenni il porto di Buenaventura, il più grande terminal merci della Colombia sul Pacifico. Ma gran parte della popolazione vive ancora disoccupata, senza servizi pubblici e sotto il giogo di gruppi armati che trafficano droga nelle vicinanze del porto.
Buenaventura (è) come uno specchio per le allodole. Il porto porta benefici solo a pochi e porta problemi alle comunità, dicono.
Cos, nel febbraio 2022, sotto la pressione di una massiccia campagna ambientalista, Duque ha fatto marcia indietro e ha chiesto all’UNESCO di designare l’area come riserva della biosfera.
Tale titolo, concesso definitivamente il 14 giugno, dà priorità alla conservazione e allo sviluppo sostenibile e ha definitivamente dato uno “slancio internazionale” alla richiesta della popolazione locale di fermare il porto.
La palude di mangrovie è vita, conclude Arisleda Hurtado, presidente dell’associazione locale delle piangueras (le piangueras sono donne che passano giornate intere alla ricerca delle conchiglie che poi vendono all’equivalente di 7 dollari al chilo, ndr).
Un preziosissimo ecosistema, tra l’altra, che trattiene l’anidride carbonica, mitigando i cambiamenti climatici.
E quando sopravvivi a qualcosa devi prendertene cura, non puoi mettere fine a ciò che ti sostiene.
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Fonti: AFP / UNESCO
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